martedì 23 febbraio 2010

La New Wave horror ovvero: quando l'Italia decise di non fare più paura (al cinema)

Riporto in questa sede, a una settimana di distanza, l'articolo sul cinema horror che ho scritto per Sugarpulp. Lì lo trovate impaginato meglio, qui nudo e crudo:

Il 6 gennaio 1896 i fratelli Lumières proiettarono uno dei loro corti di 45 secondi dal titolo: “L’arrivo del treno alla stazione di Ciotat”. La leggenda vuole che il pubblico, ancora scosso dalla novità del cinematografo, fuggisse dalla sala temendo di essere travolto dalla locomotiva. C’è da scommettere che, ripresisi dallo spavento, gli spettatori presenti quel giorno siano diventati affezionati cinefili.
Prima dei titoli di testa di “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow appare la scritta: «La guerra è una droga». Potremmo parafrasarla in «la paura è una droga» (guerra e paura sono imprescindibili). Questa è la ragione, semplice e innegabile, per cui l’horror è uno dei generi più longevi e stimolanti. Possiamo spolverare i cliché che trovano nel successo di questa narrativa la necessità di “esorcizzare le fobie quotidiane” o che gli attribuiscono una funzione catartica. La verità, più cinica e spaventosa, è che la paura è un’emozione forte e diretta: un bene prezioso all’interno di vite che spesso si riducono a un limbo di giorni tutti uguali.
Durante gli anni ’80, con l’avvento dei generi splatter e gore (due gradi crescenti di sanguinarietà), i film dell’orrore hanno iniziato a fare “schifo” (in senso buono), spesso stemperati da generose dosi di humour nero. Un esempio: l’indimenticabile “Re-Animator” (1985) di Stuart Gordon (avete mai visto un uomo strangolato da un intestino?).
In questo articolo vorrei illustrare un percorso e sollevare una polemica. Il percorso è quello della new wave horror iniziata una decina d’anni fa. La polemica si chiede perché l’Italia, a questa rivoluzione, ha deciso di non voler o poter partecipare.
Il primo film veramente spaventoso della nuova era è, senza dubbio, “The Blair Witch Project” (1999). Dimostrò al mondo che era possibile produrre un lungometraggio eccellente spendendo meno di 100.000 dollari. Guadagnò 249 milioni di dollari e diede vita a un prolifico sottogenere: quello degli horror in soggettiva, pseudo documentari o girati con una sola telecamera. Tra questi: “The Last Broadcast” (che in realtà precedette “Blair” di un anno), “Cloverfield”, “George Romero’s Diary of the Dead”, “REC”, “The Fourth Kind” e “Paranormal Activity”.
Il 2002 fu un altro anno importante: Danny Boyle diresse, spendendo solo 9.8 milioni di dollari, “28 giorni dopo”, opera a tratti terrorizzante, tecnicamente vertiginosa (ricordiamo la passeggiata per una Londra disabitata con i Godspeed You Black Emperor a far da colonna sonora), capace di svecchiare l’intero sottogenere dedicato agli zombi. L’idea era semplice: in questo film gli attaccanti (che in realtà sono esseri umani vivi e vegeti ma infetti da un virus) corrono. 



Alla paura di una massa ostile, di un mondo svuotato, dei tuoi cari che all’improvviso ti vogliono mangiare, viene tolto l’unico misero conforto: almeno, un tempo, erano lenti. Tra i migliori horror della storia del cinema, “28 giorni dopo” figlia numerose imitazioni: “L’alba dei morti viventi” di Zack Snyder è una brillante fusione di Romero e Boyle; il sequel “28 settimane dopo” è quasi all’altezza dell’originale; “Dead Set” è un coraggioso tv movie inglese che vede i ragazzi del “Grande Fratello” assediati dagli zombi (e non è demenziale!). Ma non ci sono solo zombi al servizio di sua Maestà, anche navi spaziali infestate (“Event Horizion”, “Sunshine”), teenager assassini (“Eden Lake”), killer e mostri tutti da ridere (“Severance”, “The Cottage”, “Shaun of the Dead”).
Tra la fine dei ’90 e l’inizio del millennio la Spagna alza la voce: Guillermo del Toro scrive e dirige “La spina del diavolo” (2002), Jaume Balagueró sforna “The Nameless” (1999) e “Darkness” (2002), Alejandro Amenábar ci regala “The Others” (2001). Quattro film seri, eleganti e spaventosi. Da qui in poi è tutto un fiorire di titoli, che culmina col capolavoro “The Orphanage” (2007) di Juan Antonio Bayona. Quest’ultimo è un’opera speciale: si parla di fantasmi di bambini (una costante dell’horror spagnolo) ma con grande delicatezza, evocando addirittura il “Peter Pan” di Barrie: il risultato è che la pellicola, oltre a terrorizzare, commuove. Se ne accorge tutto il mondo: Bayona apre il festival di Cannes e rischia la nomination all’Oscar.
Nel 2003 ci si mettono anche i francesi. Alexandre Aja dirige uno slasher di scioccante violenza dal titolo “Alta Tensione”. Viene subito chiamato negli USA dove sforna l’eccellente remake di “Le colline hanno gli occhi” (2006), l’ottimo “P2” (2007) e il blando “Mirrors” (2008). Lo aveva preceduto Christophe Gans nel 2001 con “Il patto dei lupi”, costosissimo monster movie in costume. I suoi compatrioti si scatenano: David Moreau e Xavier Palud confezionano “Them” (2006); “Frontière(s)” (2007) di Xavier Gens è un bagno di sangue; “Martyrs” (2008) di Pascal Laugier è anche peggio, va oltre il torture porn, sfiorando territori offensivi per lo spettatore, aggravato da pretese di misticismo (se è il concetto che conta, perché le due protagoniste, denudate e torturate, sono così carine?). L’iperviolenza diventa un trademark gallico. 




Dell’America è inutile parlare: si può dire che iniziò tutto lì nel 1999 col formidabile “Sesto Senso” di Shyamalan. Oggi quella dell’horror a stelle e strisce è un’industria in piena esplosione, divisa tra prodotti mainstream d’autore (“Drag Me to Hell”), pessimi remake (“Halloween”), ottimi remake (“L’ultima casa sulla sinistra”) e una fortissima componente  indie (“Mulberry Street”, “Borderland”) che meriterebbe un saggio a parte. Anche Canada (i tre “Ginger Snaps” sui lupi mannari, “Pontypool”) e Australia (“Wolf Creek”, “Rogue”, “Dying Breed”) si sono portati a livello mondiale. Il Sudafrica va all’Oscar col fanta-horror “District 9” (che è costato più o meno come “Barbarossa”) mentre l’Oriente: Cina, Corea e Giappone, è un discorso a parte, prolifico e alieno.
E l’Italia? Niente. A fare horror sono rimasti solo Pupi Avati (“La casa dalle finestre che ridono”, nel 1976…), l’unico ad aver capito che la bassa padana è più gotica della Louisiana o dei deserti dell’Arizona e Dario Argento. Ma il “maestro” Argento, dopo le glorie del passato, ha toccato il fondo in maniera così eclatante (“Il cartaio”, “La terza madre”) da attirare l’aperta derisione della stampa internazionale. Parliamo di pellicole non solo prive di senso logico (e onirico) ma tecnicamente inaccettabili.
Il giovanissimo Lorenzo Bianchini nel 2001 ha fatto un horror in dialetto trentino: “Radice quadrata di tre”, pieno di buona volontà (anche se troppo lungo). La cosa non ha avuto un seguito. Alex Infascelli con “H2Odio” (2006) ha cercato la via dell’eleganza bucolica, alla “Picnic a Hanging Rock”, ma il ritmo lentissimo e la trama semplicistica hanno reso il film soporifero. Stefano Bessoni è andato in Spagna (guarda caso..) per lo sconclusionato “Imago Mortis” (2009). “Smile” (2009), di Francesco Gasperoni (girato in America…) è una trita rivisitazione del tema serial killer, reminiscente dei vari “Saw”. Quattro horror girati Italia (di Iannone, Manetti Bros., Genovese e Zampaglione) sono attualmente senza distribuzione.
Non è un problema di soldi e non è un problema di “indole solare e mediterranea” (ce l’avrebbero anche gli spagnoli). Ma allora perché siamo tagliati fuori? Tre semplici ragioni: 1) Ce la tiriamo: Infascelli crede di essere Fincher, Argento cita Hitchcock (ma per piacere..), i Manetti fanno il verso a Peter Jackson. I risultati sono catastrofici: parodiamo senza averne l’intenzione, cerchiamo la metafora prima della trama (perché tutto, da noi, dev’essere “ARTE”), ce ne freghiamo se gli attori sono dei cani. 2) I produttori sono imbalsamati: se un film non ne ricorda altri tre che hanno avuto successo non lo vogliono. Il serpente, così, si mangerà la coda per sempre. 3) Non siamo più capaci. Per fare le cose bene ci vuole abitudine. Provate a tirare fuori la chitarra dall’armadio dopo vent’anni che non la usate e vedete un po’ se vi riesce un assolo.
Con la testa alta (per vanità) e le braghe calate siamo diventati la più remota provincia dell’impero. L’unica cosa di cui ci resta da aver paura è un sistema culturale, che abbiamo partorito e nutrito, incapace di contemplare l’evoluzione.                           

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