mercoledì 10 marzo 2010

Cavalli Selvaggi

Non mi dedicavo alla forma del racconto breve da molto tempo. Ho scritto questo per Sugarpulp (e dovreste leggerlo lì, dove è impaginato mooolto meglio, con tanto di tracklist) e lo riporto sul blog esclusivamente per vanità. Enjoy!


Li intercetto alle 23 e 45 del 14 dicembre sulla Timbuctù. La chiamiamo così per via delle mignotte africane che la davano via a 50 euro fino a qualche anno fa, nei parcheggi dei centri commerciali e nelle piazzole di sosta. Ora se ne sono andate, rimpiazzate da ucraine, moldave e albanesi. Dovremmo cambiargli nome, a quella strada. Una cosa tipo Mosca o Stalingrado.
La Timbuctù sarebbe la statale 10 tra Casteggio e Voghera. 10 km di pianura senza curve dove puoi prendere i 200, soprattutto a quell’ora. Loro, i 200, non li prederanno mai. Non con quella Fiesta scassata del ’93. Non si sono fermati a un posto di blocco sull’Emilia, sfiorando il carabiniere che sventolava la paletta e che se n’è rimasto lì, inebetito.
Io ero fuori dalla Bella Napoli, a controllare i documenti di carico di un camion.
Mi chiamo Pasquale Santacroce e faccio il poliziotto. Non sono alto ma sono grosso, quasi grasso, direbbe qualcuno. Non ho tanti capelli e infatti li ho rasati. Ma ho gli occhi blu. Il mio collega, Giuseppe Miracolo, detto “il Gesù”, è in malattia. Imboscato da quattro settimane in attesa della pensione. Tutto perché un novellino di Reggio gli ha detto: «Ehi Gesù! Pensa che sfiga se ti ammazzi proprio adesso. Un bel botto e butti nel cesso trent’anni di sgobbo». Tanto è bastato. Non l’ho più visto. Alla reclutata gliel’abbiamo fatta pagare facendogli bere un tè in cui aveva sborrato il Giovannone. Se n’è accorto a metà, il cretino.
La Fiesta scampagna ai 90, come se nulla fosse. Dentro quattro maschi di colore per niente agitati. Ubriachi fradici, a giudicare dagli ondeggi. Li chiamerei negri ma poi mi dareste del razzista. Non che la gente si faccia problemi a darmi del terrone, quando sono in borghese. Accendo sirena e lampeggianti e mi metto in coda. Non posso fare un granché. Agli americani è concesso di spingerli fuori strada ma a noi no. Tanto, in un modo o nell’altro, vanno tutti a sbattere. Non è come nei film.
Li affianco e gli faccio cenno di piantarla, che sono ridicoli. Il guidatore mi guarda con occhi spenti, facendo di no con la testa. Siamo a meno di un chilometro dal semaforo di Montebello. L’asfalto è ghiacciato e ci sono venti metri scarsi di visibilità. Pianura di merda. Non vedi il sole per cinque mesi, come al Polo Nord. È notte, comunque, quindi il sole non ci sarebbe lo stesso.
Semaforo rosso. Dalla sinistra sbuca un pick up blu che frena in tempo ma la Fiesta inizia a sculettare dalla paura.
Vanno tutti a sbattere.
A loro tocca il parcheggio davanti al ristorante giapponese. Sì, a Montebello c’è un ristorante giapponese, non scherzo. Prendono il marciapiede ai 70, si alzano in volo per un attimo per poi si schiantarsi contro una fila di bidoni della monnezza. Il guidatore esce come un missile dal davanti e rotola per una decina di metri, sputando denti e ossa come il sacco del macellaio quando si rompe. Mentre freno e accosto uno di quelli seduti dietro si arrampica fuori dal finestrino rotto, scivola sull’asfalto come un’anguilla e prende a correre via.
Freno, accosto, acchiappo la torcia e mi metto a correre anch’io. Do’ un’occhiata al relitto: il passeggero davanti ha le gambe bloccate dal motore e urla come un matto, l’altro dietro sembra svenuto. Nel frattempo il velocista sparisce nella nebbia, saltando il fosso e inoltrandosi in un campo arato. Sento le sirene dei carabinieri avvicinarsi veloci e decido di acciuffarlo. Con sto’ freddo meglio muoversi.
Me ne pento subito: io con le scarpe di cartone e lui con quelle da ginnastica, tutte bucate. Tra la terra scura, smossa e ghiacciata, è tutto uno scivolare, bestemmiare e ansimare. Non è che lo vedo, seguo i capitomboli e gli urletti che vengono dal bianco che ho davanti. La luce della torcia, una Maglite manganello che mi sono comprato io, sembra quella di un’astronave, nel senso che riflessa sulla nebbia si diffonde e quasi mi acceca.
Andiamo avanti così per due o tre minuti. Volete sapere come finiscono gli inseguimenti a piedi? Che la gente perde il fiato e deve fermarsi. E infatti sto quasi per scoppiare quando gli inciampo addosso: è seduto per terra, tremante, col fiato che gli fischia in gola che sembra stia per fare un colpo.
Alza le mani ma si prende lo stesso uno scapaccione sulla testa e un paio di calci sul braccio. «No! No!» grida il coglione. Mica gli faccio male, è per fargli capire chi comanda. Lo schiaffo lungo disteso, gli piego le braccia dietro alla schiena e lo ammanetto.
«C’hai qualcosa in tasca che mi può pungere? C’hai droga o armi?»
«No! No!». Mi sa che non capisce un cazzo.
In tasca non c’ha niente.
«Permesso di soggiorno?»
«No! No!»
Il fiatone mi fa salire un grumo di catarro aromatizzato alla Marlboro e mi tocca di sputare due volte, altrimenti soffoco. Lo tiro su per la collottola e inizio a spingerlo verso il parcheggio. Solo che non so più dov’è. Ascolto e non sento niente. Allora prendo la radio e dico in centrale di dire ai carabinieri di suonare il clacson. Iniziano due minuti dopo e finiscono quando compariamo noi, tutti sporchi e bagnati. Mi accorgo di avere freddo.
Un passeggero è già nella macchina dei cugini (li chiamiamo così, i militari, come fossero parenti un po’ ritardati). Per l’altro ci vogliono i pompieri. Il guidatore è sveglio ma non si muove, gli hanno messo sopra una coperta. Non capisco se è dei cugini che la usano per dormire in auto o da dove cazzo è spuntata. Gli affido il mio corridore e mi accendo una cicca. Vado dal moribondo.
«Come stai?»
«Ambulanza….»
«Arriva l’ambulanza. È che devono venire da Voghera, ci vorranno un dieci minuti. Che vi è saltato in mente?». Gli esce un casino di sangue dalla bocca, faccio un passo indietro, in caso parlando sputi. Ma non capisce. «Perché scappati?» dico forte, facendo il gesto del volante.
«Permis, permis … sojorno. Ambulanza?!» Si vabbé…mi alzo e torno al mio alfone. Dentro è comodo e calduccio. Un cugino si avvicina, mi scrocca una cicca e si fa raccontare cosa è successo. Per spiegare ci vogliono due minuti. Parliamo dialetto, tanto è terrone anche lui, viene dalla provincia accanto alla mia. Ha la pelle verdognola e due occhiaie così, poveretto. Dice che è qui da due mesi. Ti ci abituerai, gli dico, anche se è una balla.
Le sirene di pompieri e ambulanza si avvicinano da ovest. Non ho voglia di sapere se Schumacher ce la farà. Me ne vado.
Quando arrivo a casa c’è un gran silenzio. Faccio una doccia bollente e mi metto il pigiama di flanella pesante, con la vestaglia di lana sopra. Bevo un bicchiere di whisky facendo zapping, sull’uno c’è Marzullo. Cerca che ti cerca trovo un canale con le donne nude, tolgo l’audio e le guardo per un po’. Non ho sonno eppure sono stanco. Accendo la radio. Fuori la nebbia si arrotola su se stessa, come tanti pigri serpenti.
È tutto ghiacciato e i Rollin Stonns cantano di altre pianure e cavalli selvaggi. 
     

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