giovedì 30 dicembre 2010

Recesnione di Frankie Machine su Anobii, c'è veramente bisogno che ringrazi? Sì!!! E' bellissima.

Stacchi brevi, descrizioni asciutte, spazi confinati. Un testo dalla voluttuosa fisicità, materico, tattile come scorrere le dita su un rilievo. Quando l’uso della lingua consegna la forma compiuta all’idea immaginata. Ricorda l’abbraccio stilistico con cui ti circuisce Thierry Jonquet, neo-polar francese.
E’ un’illusione perfettamente riuscita entrare nella storia, una spinta alle ante di un bar, con il suo rumore di fondo, i suoi ospiti mangianti, un posto al chiuso di una città portuale, dialoghi tra funzionari, sullo sgabello Jelena Della Rebbia, poliziotta. Chioma rossa su pelle d’opale, precipitata fuori da una dura parentesi familiare, con un piede nella fossa morale della corruzione, è il biglietto di presentazione della squadra. Il resto sta al XX distretto S.Martino. Tre ispettori, il meglio di un’umanità poco sopra la media: Scarpa, parole scarse in un corpo taurino, Sciaccaluga, un oversize gastritico due cani per amico, Lorenzi, pulizia ordine e famiglia. Mai come in questo caso di protagonisti si parla, non di comprimari. Ogni personaggio è costruito con malta della migliore qualità, destinato a durare. In un auspicabile sequel c’è materia per più di uno spin-off.
Desolazione urbana, fa rima con quella degli uomini. Al piccolo cimitero monumentale, nelle tre cappelle dalla cupola grigia, Alberti/Gironi/Fronda, l’interno violato, sacchi verdi come baccelli, gas che sibilano mentre si aprono e dentro corpi senza vita di giovani ragazze, il collo segnato da una cerniera di punti, un taglio profondo rattoppato da una mano nervosa. Orlandi, il neo commissario, non ha ancora sfatto la valigia ed ha già un caso disgraziato per le mani. Tocca a questo antieroe, spiegazzato come un famoso gabardin, prendere coraggio a quattro mani. Per il colpevole non bisogna andare molto lontano, ma il primo inseguimento finisce in tragedia, per la squadra è un colpo mortale. Nell’appartamento dell’assassino, alla ricerca del movente, un paio di chiavi. E’ la prima volta che al commissario capita la pista buona. Per aprire la porta che è amica di quella chiave si scendono sette piani sotto il livello stradale. Nel box c’è l’album delle ragazze uccise, il passaporto della quarta donna e la faccia strappata del secondo uomo. Pur nella diffidenza che ispira sempre il nuovo venuto la nuova fermezza e solidità che inaspettatamente rivela man mano prosegue l’indagine forniscono impulso e compattezza alla squadra che tra una sparatoria e un inseguimento riuscirà a riprendere i fili di una storia squallida, di corruzione e degrado, dove non c’è salvezza per nessuno. La corona cittadina è fatta di vicoli stretti e oscuri, nei quali passano a malapena le auto, un dedalo inconoscibile dove nascondersi è un attimo e la pianificazione di omicidi in serie è la cosa più facile di questo mondo. Un mondo senza nome che accentua lo spaesamento di chi cerca inutilmente una motivazione in questa bruttura degli animi che ne costella le strade.
Dagradi. Il giornalismo è una scuola di scrittura, c’è chi con la cronaca nera si è costruito un riserva di storie da raccontare, e mescolando il reale con l’invenzione, ha finito per vivere di questo mestiere. Si impara a scrivere perché si è costretti alla sintesi, all’espressione celere, l’articolo deve presentare un fatto, penetrare nell’interesse del lettore e lasciare un segno. Ecco, qui la scuola del giornalismo si vede e si sente, ritmo, frequenza, riproduzione, c’è tutto. E la passione del cinema, che si riversa come un fiume in piena nelle pagine del libro. Come nella scena alla stazione, ritratta in modo magistrale. Con il controcanto della feroce lotta tra cani addestrati a cercare il sangue il pedinamento e il precipitare degli eventi descritto grazie al ralenti cinematico di un movie americano lo scrittore supera sé stesso. Se vi piacciono le scommesse, questo è l’autore giusto per farne una bella grossa.

domenica 26 dicembre 2010

Cinema: la TOP 10 2010, secondo me!

E' di nuovo tempo di liste (ammettiamolo, compilarle è molto divertente...): ecco la mia Top 10 2010, se li avete persi cercateli, se li avete visti riguardateli, se non ve ne importa niente è probabilmente perché avete di meglio da fare lontano dalla tv, bravi, l'aria fresca fa bene! L'importante, per i due lettori che arriveranno a questo link, è commentare, litigare, mandarmi a fanculo, proporre scalette alternative.

1) The Social Network. Solo il buon vecchio David Fincher poteva fare un film su Facebook che fosse contemporaneamente un thriller statico, un'incantesimo per gli occhi e il più struggente inno contro la solitudine reale imposta dai dialoghi virtuali dei social network. Siamo in zona capolavoro. L'ultima sequenza spezza il cuore, dovrebbe far riflettere sull'intera scala di valori di questa orrida modernità

2) Inception. Il film più affascinante di Nolan: una sfida per la nostra attenzione (4 livelli di sogni inglobati a Matrioska? QUATTRO !?!) sempre più logorata da pubblicità e you tube. Uno stimolo per la fantasia, uccisa da Transformer's & Co. La dimostrazione lampante che si può ancora fare grande cinema d'intrattenimento in modo intelligente. Gli si può anche perdonare di aver rubato la trama a Dreamscape. Non fosse per la parte tra nevi e fortezze, troppo 007 (o meglio: troppo Call of Duty 4: Modern Warfare) l'avrei messo al primo posto.

3) Il profeta. I francesi ce lo mettono per l'ennesima volta in quel posto confezionando il più bel film carcerario della decade, forse uno dei migliori della storia del cinema. Brutale, realistico, appassionante. Un cinema giovane, multietnico, scalciante, che prende dritto alle viscere. E noi stiamo a guardare, litigando per Vallanzasca... ma per piacere...

4) L'uomo che verrà. Ma ecco che "un volgo disperso repente si desta, intende l'orecchio, solleva la testa" e l'Italia ci da un segno di vita, isolato ma entusiasmante: il film di Diritti è splendido, commuovente, accorato, equilibrato. Dovevamo mandarlo agli Oscar e invece abbiamo spedito al massacrato un Virzì lagnoso (quando era suo turno, col brillante Tutta la vita davanti, abbiamo preferito Gomorra...).

5) Restrepo. La guerra, quella vera, in un documentario che ci porta dietro agli occhi scioccati dei soldati americani rimasti per più di un anno sotto al fuoco dei Talebani in un luogo e in una guerra che nessuno  capisce.

6) Winter's Bone. In Italia non è ancora uscito ma non perdete questo dramma/thriller che ci porta nell'america più povera, dimenticata e minacciosa. Perfetto nei volti, negli accenti, nel ritratto di un'umanità ridotta all'essenza animale: sembra The Road, ma non è post-apocalittico. Mette i brividi.

7) Harry Brown. Michael Caine diventa giustiziere della notte nel film più cupo, violento e reazionario dell'anno. Moralmente riprovevole ma inchioda alla sedia. La sequenza nell'appartamento dello spacciatore è tra le più tese dell'anno.

8) Four Lions. Si può ridere del terrorismo islamico? Eccome, ma con l'amaro in bocca. Geniale, dissacrante, coraggioso. Una tragicommedia sull'idiozia del terrorismo e dell'antiterrorismo. 

9) Salt. Meglio di The Expendables. Meglio di The losers. Il film d'azione dell'anno. Angelina kicks ass!!!!

10) Fish Tank. Dopo This is England l'inghilterra ci regala un altro impietoso ritratto della sua gioventù alla deriva. Lacrime e sangue. Da vedere solo quando ci si sente molto forti, altrimenti ha effetti devastanti.

Da segnalare: Daybreakers, Frozen, L'uomo nell'ombra, La città verrà distrutta all'alba, Green Zone, Dragon Trainer, Kick-Ass, MacGruber, Get Him to the Greek, Rec2, Scott Pilgrim vs the World.

domenica 5 dicembre 2010

Recensione "La felicità dei cani" su Carmillaonline.com

Un'altra bellissima recensione a cura di Marilù Oliva nella rubrica "I libri & i luoghi", grazie Marilù, grazie Carmilla!

Il romanzo si consuma gli ultimi tre giorni di un anno non definito, in una città di mare non nominata ma liberamente ispirata a Genova, con i carruggi della città vecchia e i vicoli di Prè. La polizia del XX distretto indaga su un triplice omicidio di donne e il cimitero, luogo di ritrovo dei cadaveri, col suo tetro guardiano, potrebbe deviare il corso delle indagini. Non è un semplice poliziesco, questo. Certo, la scena è dominata da una squadra di agenti capitanati dal nuovo commissario Eugenio Orlando, uomo imperfetto e assillato dalla sua fobia di “portar iella”. Ma i personaggi, come marionette indipendenti di un più profondo dramma, spiccano forti nelle loro imperfezioni e nelle loro debolezze interiori. Basti per tutti l’ispettrice Jelena, poliziotta randagia che arrotonda con piccole estorsioni, però poi quando indaga non si risparmia e gioca al ribasso con la vita cercando di scrollarsi le ceneri di un padre alcolizzato e di una sorella appena scomparsa. E piange, quando la solitudine glielo consente e la fatica diventa insostenibile.
Dagradi, che di mestiere è giornalista e critico cinematografico, in questo suo primo romanzo, oltre i tipi umani e le vicende, oltre lo sguardo dei cani che rimandano a un diverso tipo di (in)consapevolezza, snoda con scioltezza e con una scrittura solida questa città evanescente, invernale, multietnica – zone dove si addensa un settanta per cento di immigrati africani alternate a strisce di quartieri che gli indiani hanno trasformato in un carnevali d’incensi –, una città che all’improvviso spalanca scorci insospettabili come la Corte: «È come se la città si restringesse all’improvviso lungo il corso irregolare di corso Italia. Sul lato orientale della larga arteria si apre una ragnatela di vicoli che scendono al porto vecchio come capillari intorno a una pupilla. Le case sono così decrepite che pendono le une verso le altre, rendendo la sottile striscia di cielo tra i tetti quasi invisibile [...]. In tutto il quartiere il buio convive con un assortimento di luci variegato come un impossibile arcobaleno notturno».

Marilù Oliva

(http://www.carmillaonline.com/archives/2010/12/003700.html#003700)

mercoledì 1 dicembre 2010

Intervista a cura di Sergio Paoli su "Rumori di fondo"

Ringrazio Sergio per le belle domande e la disponibilità, trovate l'intervista sul suo blog all'indirizzo: hotmag.me/rumoridifondo/?p=477


Adamo Dagradi, classe ’74, giornalista e scrittore, da Verona, ha scritto “La felicità dei cani” (Mursia, 2009).

E prima, durante e dopo cosa hai fatto?

Prima di scrivere “La felicità dei cani” ho sporcato pannolini per qualche anno, sono andato  alle elementari, ho iniziato a mostrare i primi sintomi del mio essere nerd alle medie, colpa di “Guerre stellari”, del “Signore degli Anelli” (il libro) e dei giochi di ruolo. La cosa è andata avanti parecchio: di solito quando non hai la morosa scrivere ti viene facile e ti sembra una buona idea. Prima raccontini fantastici, poi qualcosa di più serio, fotogrammi narrativi rubati a una grande città d’invenzione, qualche inizio di romanzo abortito. “La Felicità” ha avuto anni di gestazione, con lunghe pause. Dopo ho fatto il giornalista (critico cinematografico) e ho scritto il seguito, che spero uscirà nei primi mesi dell’anno prossimo, forse prima. Cinque mesi fa mi sono sposato, quindi mi considero de-nerdizzato d’ufficio.

“Non ho mai battuto un tasto del computer senza una colonna sonora.” Spiegaci.
Quando scrivo, uno dei miei intenti principali è quello di trasmettere un’atmosfera. Per farlo mi aiuto con la musica. Ho una discreta collezione di cd, molti dei quali strumentali, che mi aiutano a prendere e mantenere il ritmo. Senza il mio stereo o l’iPod sono in guai seri.

Se dico “Frankie Machine”, cosa ti viene in mente.

Il protagonista di un romanzo capolavoro di Nelson Algren: “L’uomo dal braccio d’oro”, portato al cinema da Otto Preminger con Frank Sinatra. È anche il nome del protagonista mafioso di un romanzo più recente che non ho letto e di cui vorrebbero fare un film con Bob De Niro.

“C’è un filtro, però, nell’attaccamento nostrano alle storie di provincia, nell’insistenza politica, nella refrattarietà all’azione, che mi ha sempre tenuto lontano dal giallo targato Italia.” Mi vengono due domande. La prima: non ti sei stufato delle classificazioni di genere?

Mi stuferò delle classificazioni di genere quando l’Italia ritroverà i suoi generi perduti. Prima di allora avremo ancora bisogno di qualche distinzione. Datemi un po’ di azione o di horror tricolori capaci di raggiungere il grande pubblico (non è un problema di autori ma di editori, o di produttori, nel caso del cinema) e poi mi metterò tranquillo sui generi. Se io scrivo un poliziesco, con dentro scene d’azione e atmosfere metropolitane hard boiled, non voglio che i miei personaggi siano confusi con qualche commissario di paese che pensa più al vinello e al salame che ai casi. Chi prova a trascendere dall’osteria, se non si chiama Faletti, viene subito bollato con la famosa “americanata” e relegato in fondo agli scaffali. Piuttosto di scrivere “italianate” lo accetto volentieri…

La seconda: quale è questo filtro?

Quello che impedisce agli artisti italiani di pensare in grande; che li spinge verso l’ultraregionale; che li obbliga, per trovare consensi intellettuali, a mettere politica dappertutto.

Questa specie di ossessione della provincia, da parte degli editori , la capisco, l’ho provata sulla mia pelle e sono d’accordo con te. Non ho capito però cosa intendi quando parli di “mettere politica dappertutto”. Se scegli una dimensione non provinciale, non da osteria o da commissario di paese può scapparci la politica, o no?

Premessa: ciò che penso io non è necessariamente valido per gli altri. Questo sono considerazioni personali in cerca di consenso, che sicuramente troveranno altrettanto dissenso…Prendiamo tre ottimi autori di thriller contemporanei: Michael Connelly, John Connolly e Jeffrey Deaver. Due americani e un irlandese. Ci metterei Larsson ma ho dovuto vedere i film, bruttini, prima di mettere le mani sui libri e mi è passata la voglia di leggerlo. I tre anglosassoni non mettono mai una stilla di politica nei loro libri e sono autori di bestseller mondiali, Connelly e Connolly hanno anche uno stile forte, evocativo e ben riconoscibile. Larsson, da buon europeo, la politica ce la mette: da quello che mi dicono, però, sono discorsi generali, non immediatamente applicabili all’attualità. In Italia, spesso e volentieri, nella letteratura come nelle altre arti, si citano nomi e cognomi e si prendono posizioni continuamente. Credo che questo, ambientazioni di paese o città a parte, alieni molti lettori e inquini la narrazione, facendo sentire troppo alta la voce dell’autore in momenti che richiederebbero meno “impegno” e più attenzione alla narrazione o ai personaggi. Tutto qui. Io non auspico un mondo letterario senza politica, ci mancherebbe altro, soprattutto in questo momento di grottesca decadenza nazionale. Auspico un mondo artistico che, per il gusto di raccontare delle belle storie, possa fare anche a meno della politica.

Adrenalina, atmosfera e introspezione. Gli ingredienti per un ottimo romanzo?
I tre che hai detto e uno stile che susciti emozioni al lettore; ci vogliono anche buoni personaggi, tridimensionali. Altrimenti le emozioni non hanno nulla a cui aggrapparsi.

Cosa è successo al cinema Grifone di Rapallo, ventotto anni fa?

Ho visto per la prima volta “Blade Runner” è sono rimasto sconvolto. Non solo è diventato il mio film preferito, mi è entrato sotto la pelle: l’atmosfera dark, la malinconia, le esplosioni di violenza, la poesia. Tutto miscelato in un equilibrio perfetto, all’interno di una confezione visiva superba. Ha dimostrato che era possibile dare grande profondità anche a prodotti popolari come quelli di fantascienza.

Mi ha colpito sentirti parlare de “La felicità dei cani” come di un poliziesco corale. “Corale” lo uso a volte anche io, per i miei romanzi. Spiegaci meglio cosa intendi.

Per me un romanzo corale è un’opera che offre al lettore diversi punti di vista sulla medesima situazione: nel mio libro scopriamo cosa pensano i poliziotti, i malviventi e anche molti personaggi che vengono coinvolti tangenzialmente. Tante voci che si sovrappongono per raccontare una storia che si frammenta diventando mille storie più piccole.

“Un giallo deve essere scritto bene come ogni altro libro.” Cioè?

I giallisti, abituati a subire ogni genere di snobismo dagli scrittori di materie “alte”, sviluppano spesso una specie di timidezza stilistica: si ritirano verso un linguaggio un po’ grigio, asservito ai colpi di scena e agli incastri narrativi. Ma un giallo non è solo un meccanismo, ha bisogno di stile, di personalità: quelli di Chandler hanno trame al limite del nonsense eppure sono dei capolavori.

Che romanzo è “La felicità dei cani”?
Un romanzo poliziesco, corale, che spero sia ricco di atmosfera e spunti di riflessione. È un libro a tratti cupo, piuttosto violento, stemperato da momenti di dolcezza e, perché no, anche da un pochino di poesia. Ma ogni scarafone è bello a mamma sua… che romanzo è dovrebbero dirlo i lettori, è piuttosto ovvio che a me piaccia…

“Nessun uomo ha mai ritratto così realisticamente una poliziotta” ha scritto una lettrice del romanzo su Anobii. Che ne pensi?

Che la lettrice andrebbe sposata per il complimento! Non so se è vero ma mi fa piacere che qualcuno lo pensi. Almeno non è la solita poliziotta un po’ santa e un po’ puttana (incorruttibile ma sensuale, non dimentichiamoci che alcune case editrici pretendono scene di sesso ogni tot pagine): è una dura, è corrotta, anche se per necessità (la cosa mi da un po’ fastidio, potrei lavorarci sopra in futuro..), non è granché simpatica. Ovviamente è bella, da questo si capisce che è nata dalla penna di un uomo…

Nelson Algren. Convinci i lettori a scoprirlo o riscoprirlo.

Dovrebbe stare nell’olimpo, assieme a Hemingway, Steinbeck, Faulkner, Dos Passos e Chandler. Invece se lo sono dimenticato tutti. Ha scritto poco, in Italia si fatica a trovarlo, le traduzioni sono giurassiche. Ma i pochi che avranno il coraggio di cercarlo e leggerlo scopriranno il più grande bardo della metropoli americana: nei suoi libri e racconti ci sono una ferocia e una poesia che colpiscono dritto alle viscere.

Che stai facendo?

Rispondo alle tue domande. E poi mi mangio frittelle di zucca.

Per sapere di più su Sergio Paoli: 

BIO VERSIONE LUNGA Sergio Paoli sono io. Spesso mi chiamano con il mio cognome al singolare e mi girano le palle. Non lavoro nell'ambiente editoriale e giornalistico nè ci ho mai lavorato. Non ho mai fatto "tante cose" o "tanti mestieri", roba tipo lo scaricatore di frutta al mercato comunale, il camionista o lo spazzacamino. Neanche il cronista di nera. Sono stato fortunato, ho fatto il liceo e l'università. Non ho mai vissuto all'estero, non ho fatto anni sabbatici, nè ho mai mollato tutto per ricominciare. Ho messo su famiglia, ho tre figlie femmine e una casa con il giardino. E una monovolume di cui vado molto fiero, perchè non è aziendale e me la sono pagata io. Come mi sono pagato il mutuo per la casa. Non ho mai fatto neanche il direttore artistico di qualcosa, nè sono mai stato in una radio e in una TV a lavorare o simili. Anzi non ho mai fatto niente di artistico, a meno che non consideriate artistico suonare gli accordi de "La locomotiva" di Guccini durante le gite liceali (erano gli anni '70, mi sembra comprensibile). Taglio spesso l'erba in giardino, sennò è un casino e poi mia moglie s'incazza. Non sono un umorista, un attore, uno sceneggiatore, un regista o un fotografo, un musicista. Sono proprio negato per ogni cosa che abbia a che fare con l'espressione artistica. Non ballo la salsa, il valzer nè il tango o la salsapariglia (che poi non è un ballo). Non ammiro Bukowski però bevo. Acqua, nel 99% dei casi. Così sono quasi sempre in bagno a fare pipì, che se può essere uno svantaggio è anche un gran bel pregio se ti trovi con uno scocciatore che non ti molla perchè puoi sempre dirgli "scusi, devo andare in bagno" e lo molli tu. Mi piacerebbe essere Bruce Springsteen e saper stare su un palco con una chitarra in mano, e avere cose intelligenti da cantare. Invidio gli scrittori che hanno sempre la citazione pronta e le parole giuste. Io per trovare una parola ci metto un mese, anche perché spesso non trovo il dizionario. Non ho fatto il magistrato, il poliziotto o l'investigatore privato e di notte me ne sto a casa mia. A fare cosa sono cazzi miei. Non ho cani, gatti o criceti o altro e non li voglio: vabbè che sono carucci e simpatici e non bisogna abbandonarli mai però la loro cacca ve la pulite voi che a me schifo. Adoro le crostate e quando incontro qualcuno pieno di sé, me ne fotto. Mi occupo di solidarietà ma questi sono cavolacci miei. Scrivo storie. Se poi qualcuno le definisce in qualche modo, sono cazzi suoi. VERSIONE BREVE Sono nato nel '64 a Viareggio e vivo in Provincia di Lecco. Mi sono laureato in Economia alla Bocconi nel 1987. Oggi sono quadro aziendale e sindacalista della CGIL. Ho pubblicato: "Rumori di fondo" (2007, MEF), racconti. "Ladro di sogni" (Frilli, 2009) "Monza delle delizie" (Frilli, 2010), due romanzi con il vicecommissario Federico Marini. Non è colpa mia se li hanno definiti noir. E non rompetemi i coglioni che il "noir è morto" perchè chissenefrega. Di LADRO DI SOGNI Gian Paolo Serino mi ha scritto: "complimenti: mi hai tenuto attaccato alle pagine, anche fuor di metafora...il libro vale molto". Io ho visto i miei diritti d'autore (zero euri) e ho pensato che non c'aveva preso proprio. Un terzo romanzo della serie è atteso per il 2011. Non si sa da chi perchè non c'è un editore che se lo caghi. Adesso però ho una bio molto figa. Vari racconti sono disponibili in Rete, a questo indirizzo:
http://sergiopaoli.blogspot.com/p/racconti-qua-e-la.html
su Facebook http://www.facebook.com/sergio.paoli
su Anobii: http://www.anobii.com/sergiopaoli/books
su Twitter https://twitter.com/sergiopaoli

martedì 3 agosto 2010

Intervista per la rivista di scrittura creativa: "Omero"

Grazie ad Antonietta, che oltre a recensire il romanzo per Thrillercafe ha avuto la pazienza di intervistarmi e pubblicare la chiacchierata su www.omero.it, nella sezione "O".

http://www.omero.it/rivista.php?itemid=3053 


Adamo Dagradi: “Io credo in una letteratura libera d’inventare”
di Antonietta Meringola
E' una città di confine, un crocevia tra Est e Ovest, tra vita e psiche, quella che fa da scacchiera alla partita giocata dalla penna di Adamo Dagradi nell'opera La felicità dei cani (Mursia Editore, 2010). Pedine, in questo gioco, sono dei personaggi che vivono incastonati in una umanità che si divide tra buoni e cattivi, tra onesti e corrotti, e tra ciò che è legale e ciò che è illegale. E i cani? I cani con le loro catene, diventano simbolo di quel microcosmo dove le catene vengono indossate da tutta una società che vive ingabbiata in un gioco al pari con i cani. Il fischio d'inizio viene dato dal ritrovamento dei corpi di tre giovani donne nel cimitero della città.  E allora parte tutta una ricerca che vede gli agenti del XX distretto barcamenarsi tra una indagine che mentre porta alla luce gli "scheletri" nell'armadio di personaggi ritenuti insospettabili muove i fili di vicende personali che scardinano umori e passioni anche in chi legge. Un'opera completa e complessa dal linguaggio asciutto e pulito. Un poliziesco che prende il lettore per mano sin dalle prime righe e lo porta a spasso, tra la coscienza di una città e di una umanità, fino all'ultima pagina.
Come nasce lo scrittore Adamo Dagradi?
Nasce come un adolescente solitario e parecchio sfigato, innamorato del fantasy, della fantascienza e del giallo. Dopo aver scritto l'inizio di svariati "romanzi", tra cui un horror romantico ambientato nella Casteggio degli anni '30 e un fantascientifico dalle tinte comiche, ho iniziato a dedicarmi al racconto. Ne ho scritti una ventina, brevissimi, ambientati nell'arco di ventiquattro ore in una grande metropoli. Li ho chiamati La città di ferro. Sono molto ingenui ma, visto che non si deve mai buttare niente, compaiono a stralci nei miei attuali romanzi. Uno è stato ripreso quasi integralmente per la parte finale de La felicità dei cani e un altro avrà la medesima funzione nel sequel, che è in editing proprio in questi giorni, il cui titolo provvisorio è Ciò che disse il tuono.
Come è nata l'opera La felicità dei cani?
La felicità è nata dalle ceneri della Città di ferro; dal desiderio di dare una forma compiuta alle atmosfere metropolitane e alla galleria di facce e situazioni che sentivo solo parzialmente esplorate nei racconti. Ho deciso, allora, di scrivere un poliziesco corale, genere che, a mio parere, in Italia è un po' sottovalutato. Mettendoci anche dell'azione (quasi un tabù per "l'intelligentia tricolore").
...e il titolo?
Il titolo mi sembrava evocativo, è nato quando il libro era ancora all'inizio. Nella narrazione la condizione esistenziale dei cani viene paragonata spesso a quella degli esseri umani: ho pensato così di usarli nel titolo. Tutti i personaggi cercano una via di uscita da condizioni difficili, marcate da forti paure reali ed esistenziali e perciò sono in cerca della felicità.
Quale è il legame, nell'opera e nella realtà, tra cane e persona?
Cane e persona hanno un destino comune: chi sceglie la libertà deve affrontare la solitudine e la fame (anche simbolica) imposte dal vivere al di fuori della società. Chi si adegua, accontentandosi di due pasti caldi al giorno e qualche coccola, finisce inevitabilmente per essere schiavo di un sistema che, piano piano, stritola. Giri intorno, come un cane alla catena e ti dicono anche in quale aiuola pisciare.
Perché scegli un cimitero come luogo di ritrovamento dei tre cadaveri?
È un vecchio trucco: se nascondi un ago, diceva Sherlock Holmes, non devi metterlo in un pagliaio, ma in una scatola di aghi. Inoltre mi piaceva l'idea che uno dei sospettati, questo tipo improbabile e viscido, lavorasse in un luogo decadente come la sua personalità.
Quale è il ruolo delle donne nel libro?
Le donne sono fondamentali: la protagonista, Jelena, è una donna forte, con una vita privata tragica, che la sta mandando alla deriva. È in cerca di redenzione ma non sa da dove iniziare. Poi c'è un'altra poliziotta, Francesca, un personaggio minore al quale sono molto affezionato: lei è una ragazza normale, indipendente. E poi ancora la studentessa amica di una vittima e la ragazza croata in fuga: le donne sono la forza propulsiva dell'intero meccanismo.
Quanto c'è del tuo quotidiano nell'opera?
C'è l'amore per le atmosfere noir, c'è l'ispirazione tratta da tanti film e libri letti nel passato. Io sono un pantofolaio, lavoro di fantasia, come faceva Salgari, che in Malesia non c'era mai stato. Io nella metropoli che descrivo, che poi è una versione reinventata di Genova, ci sono stato tante volte e ammetto candidamente che mi fa una gran paura. Naturalmente ho dovuto documentarmi: ho letto saggi sulle guerre balcaniche (per curare il background di Jelena) e articoli sulla malavita e la corruzione a Genova. Il resto è frutto d'invenzione. So che non dovrei dirlo: in Italia è imperdonabile non prendere le mosse dall'esperienza personale, dall'indignazione, da mesi passati in biblioteca. Io credo in una letteratura libera d'inventare. E invito tutti gli aspiranti scrittori a rivendicare lo stesso diritto.
Secondo te che fase sta vivendo il genere noir nella nostra cultura?
Nel presente abbiamo meno bravi scrittori che nel passato. Questo perché non c'è disciplina e le case editrici, spesso, si accontentano di prodotti da supermercato. Io faccio letteratura d'intrattenimento, eppure sudo ogni parola di ogni pagina e poi lavoro per mesi col mio editor: oggigiorno in troppi scelgono le scorciatoie.
Che cosa significa fare lo scrittore oggi?
Per chi ha l'ambizione di raccontare storie, slegata da militanze o pretese filosofico-morali, l'unica responsabilità è offrire un prodotto che non sminuisca l'intelligenza del lettore. Un giallo deve essere scritto bene come ogni altro libro. Non esiste una letteratura di serie B. Chandler era grande come Hemingway.
Un'opera che hai letto e di cui invece saresti  voluto essere l'autore?
"Camminata selvaggia" di Nelson Algren: perché è il più evocativo ritratto di sofferenza in una metropoli della storia della letteratura, con pagine di un lirismo che supera la poesia. È un libro violento, al contempo realistico e visionario, scritto con un ritmo linguistico (in inglese) che passa dal be-bop al rap. Lo si potrebbe cantare.


mercoledì 28 luglio 2010

Recensione della "Felicità dei cani" su Thrillercafe

Un grazie enorme a Antonietta Meringola per la bellissima recensione! Come sempre la trovate impaginata su www.thrillercafe.it

Una nuova recensione oggi su Thriller Café: La felicità dei cani, di Adamo Dagradi. Il gioco di luci, tra realtà e invenzione, separa solo apparentemente le gabbie in cui vivono cani e persone.
Titolo: La felicità dei cani
Autore: Adamo Dagradi
Editore: Mursia Editore (collana Romanzi Mursia)
Anno di pubblicazione: 2009
Pagine: 286
Trama in sintesi:
Mancano pochi giorni al 31 dicembre e nel cimitero monumentale di una città di mare, incastonato tra la periferia e una rimessa di autobus, vengono rinvenuti, partendo dalla scoperta di Bughi, i cadaveri di tre giovani donne. Sono gli agenti del XX distretto, con a capo il neo arrivato commissario Eugenio Orlando, a occuparsi del caso. Gli agenti si muovono subitaneamente per la città, iniziando le indagini dai custodi della sacralità del cimitero, e come le formiche in un formicaio ricercano tracce e indizi utili a scovare il serial killer. Il gelido vento invernale non si arresta neanche dinanzi allo scempio perpetrato sui tre corpi, anzi diventa spettatore impietoso nel mentre si ridisegnano e si ridistribuiscono, senza sosta, nuovi tasselli alla verità.
 
E’ una città di mare con i suoi rumori, i suoi colori e i suoi profumi. E’ una città di confine, un crocevia tra Est e Ovest, tra vita e psiche, quella che fa da scacchiera alla partita prima solo disegnata e poi abilmente giocata dalla penna di Adamo Dagradi nell’opera La felicità dei cani. Pedine di questo gioco, che si alterna tra realtà e finzione, sono alcuni personaggi instancabilmente carichi del loro quotidiano e dei loro ricordi. Personaggi che vivono a loro volta incastonati in una umanità che si divide tra buoni e cattivi, tra onesti e corrotti, e tra ciò che è legale e ciò che è illegale. E i cani? I cani con le loro catene, le loro gabbie e le ombre dei loro padroni diventano simbolo di un’astrazione che dal particolare, da quel microcosmo su cui l’essere umano scrive e ascrive il suo potere, si evolve ridisegnando e riproponendo un universale, un macrocosmo, dove le catene vengono indossate da tutta una società che vive ingabbiata in un gioco al pari dei cani. Il fischio d’inizio viene dato dal ritrovamento dei corpi di tre giovani donne nel cimitero della città. E allora parte tutta una ricerca che vede gli agenti del XX distretto barcamenarsi tra un’indagine che mentre porta alla luce gli “scheletri” nell’armadio di personaggi ritenuti insospettabili muove i fili di vicende personali che scardinano umori e passioni anche in chi legge. Un’opera completa e complessa dal linguaggio asciutto e pulito. Un poliziesco costruito da una penna sicura e dall’inchiostro indelebile che prende il lettore per mano sin dalle prime righe e lo porta a spasso, tra la coscienza di una città e di una umanità, fino all’ultima pagina. Non c’è possibilità di respiro. Le scene si susseguono ininterrottamente tra vecchio e nuovo. Le vicende si evolvono dal basso verso l’alto in una escalation di fatti che diventano a vario livello specchio del nostro quotidiano, della nostra incessante ricerca di verità e salvezza, al netto dei sensi di colpa e dei rimorsi.

giovedì 10 giugno 2010

Intervista su "Pegasus Descending"

Andrea Pelfini di Pegasus Descending mi ha intervistato. Giudicate voi il risultate e se ho detto della idiozie non mancate di farmelo notare....

 “Senza i generi non si va da nessuna parte”. Parola di Adamo Dagradi

Buono quello lì, direte voi, Adamo Dagradi ha scritto un poliziesco come La felicità dei cani ed è normale che affermi che i generi sono importanti. Beh, molti si vergognano di dire che i generi sono utili o che essi stessi sono scrittori di genere. Come se fosse un insulto. Allora ci si ritrova e si discute: ma i generi sono morti o sono riduttivi, il noir non c’è più, meglio il post-noir, il noir a pois o quello che è diventato rosso. O blu. O rosso-blu. Forza Genoa. La cosa forse importante da dire sarebbe che i generi esistono per essere superati e contaminati; sono delle porte per comunicare, non per separare. E alla fine, forse, meglio un buon romanzo di genere come quello di Dagradi piuttosto che altra alta letteratura bolsa e ritrita. Ma l’intervista con lo scrittore veronese è una occasione imperdibile per approfondire la genesi del suo romanzo d’esordio, ma anche per parlare di cinema e di letteratura, nonché del mondo che gira intorno all’editoria e del seguito de La felicità dei cani: titolo provvisorio Ciò che disse il tuono by T.S. Eliot.

La felicità dei cani. Perché questo titolo un po’ enigmatico?
Il titolo è nato quando il romanzo era ancora in embrione. Mi sono innamorato della metafora cane – uomo e in particolare di come entrambe le specie siano disposte a rinunciare alla libertà pur di conservare alcune certezze: tra cui l’affetto, il nutrimento e la protezione dai pericoli. Nel libro ci sono cani e umani domestici e cani e umani randagi: tutti sono in grande difficoltà e la felicità la cercano, non la possiedono, quindi il titolo è per difetto. Quando la casa editrice l’ha accettato ero al settimo cielo, commercialmente, però, si è rivelato un bel problema: molti non credono che un poliziesco possa avere un titolo del genere, in alcune librerie è finito negli scaffali dedicati agli animali…
Rivelami un segreto: chi è il vero protagonista del libro?
Io credo che il vero protagonista del libro sia l’atmosfera o così spero. Il poliziesco italiano si muove quasi sempre davanti a scenari provinciali e non corali (con l’eccezione di Quel pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda). Quando, raramente, compare una metropoli è spesso ridotta a uno sfondo un po’ anonimo o addirittura a una serie di paeselli saldati assieme. Io volevo una metropoli verticale e malinconica, le cui atmosfere notturne potessero emergere come quelle della Los Angeles di Connelly o, perché no, di quella futuribile di Blade Runner. Una città multietnica, antica e moderna al contempo. Ma senza rinunciare all’italianità. Un vizio tutto tricolore è quello di credere che certe “sequenze” se le possano permettere solo gli americani. È un’idiozia. Le metropoli ce le abbiamo: sfruttiamole.  
Jelena è indubbiamente uno dei personaggi cardine di tutta la storia. E’ stato difficile scrivere mettendosi nei panni di una donna per te che, leggo sul tuo curriculum, sei un uomo?
Da 25 anni conduco serate di giochi di ruolo (e non mi sento un nerd!!) con un gruppo di amici che solo di recente si è impreziosito di qualche presenza femminile. Era diventata un’abitudine interpretare personaggi di contorno femminili. Col tempo ne è nato un archetipo che ho trasformato in una specie di ossessione: quello di una ragazza bella ma in qualche modo ferita, il cui calore e la cui femminilità sono sepolti sotto strati di diffidenza e paure. Non è stato difficile, spero solo che il personaggio venga apprezzato: non è una persona per le quale si parteggia subito. Se sia convincente anche per una lettrice lo devi chiedere a una donna… 
Rivelami un altro segreto: siamo a Genova, vero?
Sì, siamo a Genova. Ma non è la città che trovate sulla carta geografica e che potete visitare. È la metropoli che amplificava le mie paure infantili sullo smarrimento, il labirinto senza direzioni che tutt’oggi mi mette a disagio e mi affascina (vivo a Verona ma mi considero ligure d’adozione). È, inoltre, la summa di tutte le città: c’è qualcosa di Milano, di Londra, di Parigi, di New York e Los Angeles. Non la volevo nominare e non la nominerò mai perché conservo avidamente il desiderio di poterci fare quello che voglio. La topografia, del tutto reinventata, è strumentale alle atmosfere e alle esigenze narrative: ho bisogno di una Chinatown? Ce la metto. Di un grattacielo? Idem. Ed McBain lo ha fatto per decenni con la sua New York innominata e ha sempre funzionato bene. Qualche critica per questa scelta l’ho ricevuta e la mia impressione è che in Italia sia molto difficile trascendere da certe radici storiche, geopolitiche e culturali. Sono convinto, invece, che si sia arrivati a un punto in cui le radici vanno strappate: è necessaria una ventata di novità. Un’altra cosa che non troverete nel romanzo è la politica. Non m’interessa, almeno non come narratore. La politica, in Italia, di destra o sinistra indifferentemente, ha ucciso l’arte e soffocato i generi, tutt’oggi guardati da certi intellettuali con vergogna. Ma senza i generi non si va da nessuna parte perché sono la maggiore fucina di idee originali. 
Nella mia recensione del tuo romanzo ho scritto che, a mio avviso, l’intero XX Distretto è praticamente un unico grande personaggio. I suoi membri non fanno altro che dividersi pregi e difetti di una persona, tutto sommato, normale. È una lettura corretta la mia?
È sicuramente corretta. La felicità dei cani è un romanzo corale che esplora i punti di vista e la ragioni di tutti i personaggi coinvolti: incluse comparse e … cani. La speranza era quella di costruire un affresco credibile di psicologie e motivazioni: non ci sono cattivi fini a se stessi né eroi. Tutti i protagonisti sono in qualche modo “difettati”, tutti hanno speranze, desideri, paure. Questo, ovviamente, vale per ogni essere umano normale. 
Ho trovato particolarmente affascinate, ancor più di Jelena, la figura del commissario Orlando. Perché un personaggio così complesso e dove hai tratto l’ispirazione per la sua nascita?
Tra tanti antieroi me ne serviva uno in cui specchiarmi. Orlando è un distillato delle mie nevrosi proiettate in avanti di vent’anni: non credo di essere un uomo coraggioso, sono stato ipocondriaco (e un po’ lo sono ancora) e sono piuttosto nevrotico. Ho pensato che non avevo mai letto un libro nel quale il commissario partiva come un ometto senza arte né parte, raccomandato e spaventato, onde poi trovare la forza interiore di migliorarsi, tirare fuori le palle. Ero affascinato dalla possibilità di un’evoluzione imposta dalle circostanze. 
Il tuo modo di narrare è caratterizzato da momenti estremamente lenti, riflessivi, interrotti da improvvise folgori di azione, inseguimenti e sparatorie. È una tua precisa scelta o invece è qualcosa di più istintuale e naturale?
È del tutto naturale. Nella realtà la violenza arriva all’improvviso e travolge tutto. Le mie sparatorie non sono pulp, semmai sul finire c’è n’è una “western” ma comunque perfettamente realistica. Tra una tempesta e l’altra ho cercato di contemplare una storia intricata, popolata di molti volti, luoghi e situazioni. Spero comunque che non ci siano troppe lentezze! Il ritmo per me è importantissimo.
Tu sei un critico cinematografico. Quanto ha contato la tua frequentazione del mezzo narrativo “cinema” nello scrivere La felicità dei cani?
L’amore per il cinema è stato decisivo nella formazione dei miei gusti e del mio modo di raccontare storie. Mentre scrivo immagino le scene come fossero sequenze, inquadrando i dettagli come farebbe un regista. Al contempo ci tengo a specificare che lo stile non è “cinematografico”: troppi scrittori, oggi, tendono a servire al lettore piatti troppo cucinati, riducendo al minimo tutto ciò che non è intreccio e suggerendogli anche come dovrebbero immaginarsi protagonisti e luoghi (associandogli volti di attori o altri riferimenti popolari di origine visiva). Io credo nella complicità del lettore, che un po’ di fatica per aggiungere del suo al mio universo (che smette di essere mio nel momento in cui entra in casa di qualcun altro) la deve pur fare.  
La felicità dei cani
Cosa hanno in comune il cinema e la letteratura e cosa di opposto?
In comune hanno la capacità magica di trasportarci altrove e farci vivere emozioni che forse non vivremmo mai. Non credo ci siano opposti: sono due modi diversi per raccontare storie, vanno benissimo entrambi e andrebbero alternati senza preconcetti. 
Qual è il tuo regista preferito e perché?
Impossibile selezionarne uno solo. Diciamone tre, tanto per cominciare: Michael Mann, per la purezza della visione che riesce a elevare i generi più popolari a vertici impensabili. Clint Eastwood, perché ha dimostrato quanto la “vecchia” Hollywood ha da dire su argomenti attualissimi e su altri che sembravano conclusi (come il western). Credo che Clint sia il più grande regista vivente. Ridley Scott, anche se oggi si è impigrito. Non ho bisogno di ragioni, mi basta qualche titolo: I duellanti, Alien, Blade Runner, Legend e Black Hawk Down.  
E il tuo scrittore?
Nelson Algren
è un grande dimenticato. Il più dolente e visionario ritrattista della povertà e della malavita nelle grandi città d’America. Riscopritelo. 
Come è nato La felicità dei cani?
Da una serie di micro-racconti scritti in gioventù coi quali cercavo di descrivere la vita di città nei suoi aspetti più borderline. Ho pensato che sarebbe stato bello allungare il progetto senza perdere in tensione o lirismo descrittivo. Una fatica della malora … spero di esserci riuscito. 
Qual è il tuo modo di procedere nel lavoro di scrittore?
Purtroppo non sono molto prolifico. Invidio molti gli scrittori che tutti i giorni si siedono al computer e buttano giù dieci pagine. Io vado a scatti, non so mai quando scriverò e se sarò soddisfatto di ciò che finirà in pagina. Ci deve essere il giusto stato d’animo, tranquillità, una colonna sonora adeguata che mi dia il ritmo, senza il lettore di cd acceso non mi esce una parola. E poi mille ripensamenti e angosce … un vero casino …
 La felicità dei cani è tutta opera di fantasia oppure hai tratto spunto da qualche fatto reale?
Ovviamente c’è un’attenzione particolare ai fatti di cronaca che funestano tutti i giorni i telegiornali e anche della ricerca per quanto riguarda problematiche come la corruzione, lo spaccio, la prostituzione. Ma è più che altro un modo per tenere le antenne ben alzate sull’oggi. Non mi sono ispirato a casi particolari. Per delineare il passato traumatico di Jelena, inquadrato nella tragedia dei genocidi balcanici, naturalmente ho letto dei libri, per rispetto nei confronti della storia. Qualche libertà, però, me la sono presa comunque….Il romanzo, in sé, è totalmente di fantasia. Non ci crederai ma mi è stato rinfacciato anche questo. Io dico: la fantasia ce l’abbiamo, e usiamola no?!?
Prima di questo lavoro hai pubblicato altre cose di narrativa?
No. La raccolta di racconti era troppo breve e non c’era nient’altro di compiuto.
È stato difficile trovare un editore disposto a scommettere sul tuo lavoro?
Stranamente no. Ho spedito a molte case editrici senza avere risposta. Sono stato rifiutato da Flaccovio. Poi un caro amico, che pubblica per Mursia, mi ha consigliato di spedire a loro: dopo qualche mese si sono fatti vivi dicendo che per loro era un ok. Il contatto mi è servito? Sicuramente. Mi sento un raccomandato? No, perché il romanzo è stato letto e approvato da un comitato composto da svariate persone. Sarebbe arrivato sulla scrivania giusta per essere letto senza il mio contatto? Probabilmente no. E pensare che uno dei più grandi agenti letterari d’Italia, letto il romanzo definendolo buono, aveva escluso a priori che un esordiente potesse essere pubblicato da un editore nazionale. Resta il fatto, tristissimo, che in Italia senza conoscenze difficilmente qualcuno ti calcola. Dietro gli stand del salone del libro di Torino ci sono immensi cassonetti in cui molte case editrici buttano i manoscritti che gli vengono consegnati. Non senza averti fatto compilare una scheda, tanto per tenerti buono, coi tuoi dati. Lo so perché ci ha lavorato un’amica. Vergognoso…
So che eri impegnato sul seguito di questo romanzo. Puoi dare ai lettori di Pegasus Descending qualche anticipazione?
Il secondo romanzo del XX distretto è in fase di editing e spero che esca tra la fine dell’anno e l’inizio del prossimo. Il titolo di lavorazione è Ciò che disse il tuono, rubato di peso dalla Terra desolata di T. S. Eliot. Jelena e il commissario Orlando, con l’aiuto di Sciaccaluga e degli altri, si mettono alla ricerca della sorella di Jelena, che sembra essere stata risucchiata da un brutto giro di pornografia clandestina. Finiscono sulle tracce di un fantomatico regista che, secondo voci di strada, si starebbe preparando a girare uno snuff movie. È meno corale, più cattivo, torrido, sensuale, grottesco del precedente. Una bestiolina rognosa che mi sta dando più di un grattacapo e della quale sono a
ssolutamente innamorato.