sabato 7 novembre 2009

Genesi per cani infelici


Si potrebbe dire, romanzando la genesi della “Felicità dei cani”, che per scriverlo ci ho messo trent’anni. Ne avevo solo otto quando uscii perplesso e turbato dal cinema Grifone di Rapallo: avevo appena visto “Blade Runner”. Non ci avevo capito niente. Qualcosa, però, di quelle atmosfere cupe e allucinate, di quella futuribile malinconia, mi era entrato sotto la pelle. Sapevo, anche se forse non consciamente, che Genova, vicina ma sconosciuta, intravista dai cavalcavia andando e tornando dalle vacanze, possedeva tutta la ferocia estetica della metropoli inventata da Ridley Scott. Era un labirinto scosceso, mi faceva paura, me la fa tutt’oggi.




Sul fronte letterario la passione per i lambiccamenti di Sherlock Holmes passò appena misi le mani su “Addio mia amata” di Raymond Chandler. C’era qualcosa di struggente, romantico e violento nelle sue pagine: erano umanissime e sovrumane al contempo. Philip Marlowe entrò nel pantheon dei miei eroi al fianco di Luke Skywalker e Han Solo. Dopo di lui scoprii Ross McDonald e poi il precursore Dashiel Hammett. Più avanti rimasi intrigato dall’inedita coralità dei romanzi di Ed McBain. Oggi leggo Michael Connelly, anche se non mi piace più come un tempo. E l’Italia? “Quel pasticciaccio brutto di Via Merulana”, Scerbanenco, una passione fugace per le avventure di Sarti Antonio scritte da Loriano Macchiavelli. C’è un filtro, però, nell’attaccamento nostrano alle storie di provincia, nell’insistenza politica, nella refrattarietà all’azione, che mi ha sempre tenuto lontano dal giallo targato Italia.Anche al cinema, prima ancora che scriverne diventasse un lavoro, mi ero appassionato al poliziesco: “Il braccio violento della legge”, “Bronx 41o distretto”, il noir fumetto “Nikita”, il capolavoro “Heat – La sfida”, “The Shield” in televisione. Purtroppo non so girare film.


Ma ho sempre scritto. Le prime tracce della “Felicità dei cani” le ho ritrovate in una minuscola raccolta di racconti, mi piace chiamarle fotografie, intitolata “La città di ferro”. Scatti metropolitani, con per protagonisti piccoli criminali, prostitute e gente comune. Ingenui, sì, ma scritti e riscritti così tante volte da maturare insieme a me. Tanto che uno di loro, “Il gatto”, è finito quasi integralmente nelle ultime pagine del romanzo. E poi una serie infinita di progetti iniziati e abbandonati, tra cui esperimenti horror e di fantascienza, e due (orribili) commedie teatrali. Tutte le cose migliori, però, puntavano nella stessa direzione: scrivere un poliziesco italiano che contenesse, per una volta, dosi eque di adrenalina, atmosfera e introspezione. Scritto col ritmo e la struttura di una sceneggiatura. Riguardo a stile e atmosfera mi resta da citare un autore.


Nelson Algren è il più grande dimenticato del ‘900. Una di quelle firme che possono cambiarti la vita. La povertà e la poesia della sua Chicago criminale si adattano a ogni luogo e ogni epoca: dalla Londra di Dickens alla Napoli di Saviano. Quando trovai una copia di “Camminata selvaggia”, nella biblioteca comunale di Santa Margherita Ligure, il mio fato fu segnato. Non ho mai battuto un tasto del computer senza una colonna sonora. Ogni pagina ha il suo cd. Agli autori e ai cineasti citati è doveroso quindi affiancare alcuni musicisti i cui spartiti e i cui testi sono stati fondamentali per aiutare la nascita della “Felicità dei cani”. Lou Reed, Tom Waits e Bruce Springsteen in testa. Ma anche le atmosfere strumentali di Brian Eno, degli Stars of the Lid e degli Explosions in the Sky.






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