martedì 8 dicembre 2009

Underground vs. Nokeys

Questo editoriale scritto per i Nokeys ha avuto un certo successo online e allora mi pregio d'inserirlo anche sul mio blog, l'ho scritto qualche anno fa ma purtroppo è ancora attuale....


Siamo stufi del pregiudizio che esiste contro il pop e il pop rock. Siamo stufi che indipendente venga definito non tanto chi cerca di farcela con le proprie forze, ma solo chi suona un determinato genere. Che si abbia il coraggio di dire, una volta per tutte, che chi si propone come alternativa all’esclusività dei circuiti ufficiali è in realtà ancora più esclusivo di loro. Siamo anche stufi dei concorsi e della falsa solidarietà tra band ai concorsi. Chi ti fa i complimenti prima dell’esibizione e poi non si lascia scappare un applauso durante per paura di influenzare la giuria, qui non è bene accetto”.

Rico
Nokeys

L’anno scorso ho avuto la fortuna di poter fare una lunga chiacchierata con Enrico Vanzina. Verona era tutta un fremito per la parata di stelle e stelline che l’avevano invasa in occasione di Schermi d’Amore e noi ce ne stavamo comodamente seduti, fumando (illegalmente) nella Hall di un elegante Bed & Breakfast, affacciato su una delle piazze più celebri della città. Il padre di “Vacanze di Natale” si è rivelato un uomo di straordinaria cultura cinematografica, disponibile, cortese. “Noi viviamo tra la gente”, ripeteva, parlando anche a nome del fratello Carlo. “Andiamo allo stadio, al cinema, io insegno all’università....”. Questo per sottolineare il fatto che, per quanto malignati dai frequentatori dei cinema d’essai, i loro film hanno un legame quasi biologico con il pubblico. Mi torna in mente una gag di Paolo Villaggio, secondo il quale Margherita Buy, sdegnosa di fronte ad un comico, avrebbe cominciato a salutarlo solo dopo che la Biennale l’ha premiato con il Leone d’Oro alla Carriera.
Che cosa c’entra tutto ciò con una band chiamata Nokeys? Di certo non girano commedie né, tantomeno, compongono musica demenziale. Si tratta, però, di un gruppo che vive a contatto con la gente: non solo di ogni estrazione sociale ma anche di molteplici etnie. Avendo deciso di offrire intrattenimento in modo serio, professionale e apolitico, accade che, troppo spesso, non vengono salutati dalle Margherite Buy di turno. In Italia, purtroppo, esiste un’autoproclamata intelligentia musicale che non riesce a svincolarsi dai confini di un’illusoria realtà underground. Una generazione di band di scarso talento e nessuna speranza che finge indifferenza nei confronti del fallimento. Accade, allora, che si rifugino nella militanza, omologandosi nelle idee e nel look: tutti uguali, brandizzati peggio di una compagnia di fanti della Wermacht. In molti riparano nel tribalismo provinciale, una religione fondata principalmente sull’onanismo di gruppo. Sostengono di essere a contatto con la massa, di parlare linguaggi popolari, quando, in realtà, si rivolgono ad una fascia ristretta di privilegiati. Studenti ed ex studenti che hanno equivocato del tutto il valore comunicativo della musica e dell’arte in genere (forse confusi da rivoluzioni passate, sulle quali la cultura ufficiale insiste con perseveranza luciferina) e pretendono che tutto si trasformi in altro da sé. “Se ha successo è commerciale, se è commerciale non è bello”, è un vecchio adagio insensato che si ascolta ancora in certi ambienti. Parate di raccomandati, organizzatori politicamente compiacenti, gruppi di “artisti” stonati in costume da “artisti”, sono il pane quotidiano del sottobosco musicale di ogni città. “Alternativi” che, ormai, sono più riconoscibili di un gatto ad un’esposizione canina. Costretti a nascondere la mancanza di idee sotto cacofonie di distorsioni o sperimentalismi circensi.
Un mondo assai mediocre che rischia di trasformarsi, per chi possiede un briciolo di talento e l’anticonformismo di voler fare musica senza slogan, in un muro di gomma. Una tappa da saltare del tutto, in cerca di quel salto di qualità che ti spinga fuori dai circuiti del compromesso verso una, forse utopica, libertà espressiva.
Triste è il destino di una forma d’arte che cada nelle mani di una massa di impiegati della disobbedienza.


A.D.

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