sabato 9 gennaio 2010

Recensione della "Felicità dei cani" sul Blog Cattive Idee


Un grazie enorme a Carlo per questa meravigliosa recensione:

Come riconoscete un bel romanzo? Semplice: quando finite di leggerlo vi chiedete cosa stanno facendo ora i protagonisti. Ne vorreste leggere ancora. Vi dico la verità: non mi è capitato molte volte. In genere quando finisco un libro mi chiedo sempre cosa potrei fare di meglio. Eh, deformazione professionale si potrebbe anche dire. Ma le parole giuste sarebbero tremenda presunzione, diamo pane al pane. Il pacco è che raramente mi lascio trasportare dalle atmosfere di una lettura: prendo e inizio ad analizzare struttura e stile, smonto tutto come un chirurgo e alla fine mi perdo il piacere della lettura. Mi è partito subito questo meccanismo perverso anche con “La felicità dei cani” opera prima del Veronese Adamo Dagradi. Però, circa verso pagina 50, la scrittura di Dagradi ha fatto il miracolo: la mia macchina analizzatrice (un oggetto bio-meccanico uscito da un film di cronenberg) si è spenta, si è spento il mio io cosciente e sono entrato dentro al libro, proprio dentro con tutte le braghe. E ho provato quella bella e calda sensazione che provavo da ragazzo quando piegavo la testa sulle pagine di quelli che sarebbero diventati i miei inconsapevoli maestri e me ne andavo via, in un altro posto.

Bè, ma ora è meglio che la smetta di parlare di me e mi vesta col vestito della festa introducendo il mio ospite e cercando di non fare più rime interne come in questa frase, che mi dicono che sono proprio brutte da leggere.

 


Genova, dicevo, è un’idea come un’altra




“La felicità dei cani” è un poliziesco ambientato in un’uggiosa città del nord Italia. Una città schiacciata tra il mare e le montagne che cerca di fuggire faticosamente dall’assedio del primo senza riuscire a trovare una vera salvezza sulle seconde. Una città ponte, di confine, multietnica.

Potrebbe essere Trieste o Genova, ma non è importante conoscerne il nome per capire che ci troviamo davanti ad un luogo letterario che compendia le caratteristiche della moderna metropoli italiana: buia, indifferente, enorme, labirintica, soffocata d’asfalto come nella migliore tradizione del poliziesco americano eppure allo stesso tempo carica del fascino di una storia millenaria.

Certo, la tentazione Genovese è forte, tanto più che a volte, nel romanzo, pare proprio di scorgerne alcuni inconfondibili lineamenti, ad esempio negli anfrattuosi dedali del quartiere di Corte, che sembrano proprio i tipici carrugi del capoluogo Ligure.

Già a poche pagine di immersione nel romanzo, però, ci accorgiamo che la città di Dagradi è un luogo dell’anima, una sorta di correlativo oggettivo delle vite dei protagonisti, in bilico fra ombra e luce, mai completamente buoni o cattivi, semplicemente uomini. O cani.




Ma che paura che ci fa quel mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo proprio mai




Azzecchi un personaggio e hai scritto un bel romanzo. Azzeccali tutti e hai scritto un’opera che sopravvivrà al tempo. E’ quello che ha fatto Dagradi coi poliziotti del XX Distretto e i loro colleghi, coi papponi e le puttane, coi delinquentelli e gli studenti e con tutti gli altri comprimari del romanzo.

Ora, la parola comprimario mi suona un po’ male in quest’ambito. Difatti, la peculiarità de “La felicità dei cani”, quella forza strana che ha spento persino la mia macchina d’analisi critica, sta tutta nell’amore di Dagradi per ogni suo singolo personaggio: non importa se appaia per poco, se sia un animale o uno dei protagonisti della vicenda.

Pensando a questa recensione ho cercato un parallelo letterario calzante per la capacità di Dagradi di penetrare nelle vite dei potenti e degli umili con il medesimo vigore e rispetto ma l’unica associazione che mi sembra veramente calzante è quella con la pittura di Caravaggio: come il grande pittore riesce ad estrarre dalle tenebre le sue figure, così Dagradi estrae dalle tenebre della moderna indifferenza volti e storie, illuminandoli e rendendoli protagonisti.

Per questo, non aspettatevi un detective solitario come Marlowe in “La felicità dei cani”, né un eroe d’azione che riempia tutta la scena. Seppure la narrazione sembri avere una predilezione per la poliziotta Jelena della Rebbia, meticcia come lo sono la città in cui si muove e la sua coscienza, ben presto ci accorgiamo che, proprio come in Moby Dick, il focus su un personaggio principale nelle prime pagine è utile per farci salire sulla popolata nave del romanzo senza esserne frastornati.

E visto che abbiamo citato il capolavoro di Melville, restiamo in tema: se la caccia all’enorme capodoglio bianco era il motore delle avventure dell'equipaggio del Pequod, la ciurma di Dagradi è alla caccia di qualcosa di altrettanto grande e sommerso. L’indagine che si sviluppa nel romanzo, infatti, porterà gli uomini e le donne del XX distretto a scavare nel profondo della loro città alla ricerca di una verità sfuggente e inafferrabile proprio come un gigantesco e simbolico cetaceo, guidati da un capitano, il commissario Orlando, che, pur agli antipodi del melvilliano Achab per stazza e temperamento, è come lui alla precisa ricerca di un riscatto personale.




Foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia




Lo stile che Dagradi impiega nel “La felicità dei cani” è animato da inquadrature rapide e incisive. Nulla sta nell’obiettivo più di quanto ci aspettiamo ma, pur nella narrazione incalzante, Dagradi ha il tempo di soffermarsi sugli ambienti, i tristi interni polverosi e i freddi esterni grigi che agognano un po’ di calore, preparando di volta in volta gli spazi per i suoi movimenti di macchina. Non sto usando a caso metafore cinematografiche, perché la sensazione di velocità e immediatezza del testo, unita alla pulizia delle descrizioni delle indagini, ben si presta a una possibile trasposizione cinematografica. Alcuni passaggi narrativi, oltre che lo studio dei personaggi e la dimensione corale, mi hanno ricordato le scelte stilistiche degli sceneggiatori de “La squadra”, l’ottimo sceneggiato poliziesco di Raitre, una delle ultime cose buone che ha prodotto la nostra tv nazionale.

Il paragone col mezzo visivo, d’altronde, non rende completamente giustizia al testo e alla prosa del Nostro. Sembra una puntigliosità banale ma in un romanzo, ciò che apprezzo maggiormente è proprio la dimensione necessariamente letteraria, indissolubilmente legata alla parola scritta e intraducibile con qualsiasi altro mezzo. In questo senso, in Dagradi stupisce la tensione verso un lirismo sofferto e onnipresente che, mentre la storia si evolve e i personaggi si delineano, diventa quasi necessario alla tematica principale del romanzo, adombrata nel titolo.

Nello stile di Dagradi, Il post-romanticismo dei polizieschi americani, fatto di metafore crude e parole di registro popolare, si sposa con la venerabile tradizione della prosa italiana e questo connubio ben equilibrato ci regala, nella bellissima scena conclusiva, alcune delle pagine più sentite e cariche di maestria che mi sia capitato di leggere recentemente.




E circospetti ci muoviamo, un po’ randagi ci sentiamo noi




“La felicità dei cani” è un romanzo corale, popolato da personaggi vivi e credibili, percorso da quella sensazione di spleen post-moderno che permea sottilmente le vite di chi abita nelle grandi città d'asfalto e nebbia, schiacciati dall'impotenza, dal cinismo e dall'impressione che le cose siano destinate comunque a peggiorare. In questo panorama, la ricerca personale della felicità diventa quasi una queste epica che richiede duro lavoro e grandi sacrifici. E cosa sono gli investigatori, siano essi tutori dell'ordine o “occhi privati”,  se non  il corrispettivo moderno dei cavalieri dei poemi cavallereschi? Con molte macchie, è vero e altrettante paure. Soli forse, spaventati, cani randagi che per un po' di calore sarebbero disposti persino a farsi mettere guinzaglio e catena.

Per concludere, è chiaro che la metafora che anima il romanzo di Dagradi ci riguarda tutti, noi che viviamo in questa terra desolata, assediati dal mare scuro dei sensi di colpa, dei rimorsi e delle vigliaccherie, perennemente alla ricerca di una salvezza o di una redenzione, obiettivi che sembrano sempre più distanti come cime di montagne impietose. Per questo consiglio il libro non solo agli appassionati del genere poliziesco ma anche agli amanti della buona letteratura tout court e, soprattutto, a chi cerca una lucida e precisa visione del vivere contemporaneo.

Carlo Vanin


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